venerdì 30 ottobre 2009

IL CONTO SALATO DEI CONCORDATI (il mio editoriale di oggi su Tribuna di Treviso)


Questo giornale si è imposto, attraverso un’inchiesta, di spiegare ai suoi lettori come sia possibile salvare imprese destinate al fallimento trovando un accordo per cui i creditori si accontentano di una parte residuale di quanto spetterebbe loro, a volte anche solo un sesto del credito originario.
E siccome nessuno fa nulla per nulla, viene spontaneo chiedersi anche, e provare a capire, chi e come ci guadagni da questo meccanismo e chi, al fondo della «catena alimentare economica», si ritrovi con il cerino in mano senza poterlo dare a qualcun altro.
Nel suo editoriale, Enrico Pucci propone domande a cui in fondo già da delle risposte. In effetti i principali beneficiari dei concordati sono le banche, creditori chirografari, non privilegiati, che non hanno nessun interesse a far fallire una azienda, soprattutto se una grande azienda, rispetto alla quale vantano crediti, sotto qualsiasi forma. E questo non solo perché rientrare anche solo del 16% è sempre meglio che non rientrare di nulla, come spesso succede nei fallimenti. Ma anche perché dal momento che il concordato viene concesso lì dove ci sia un piano industriale che consente un effettivo rilancio delle attività, gli istituti di credito spesso entrano nel capitale sociale dell’azienda risanata. Così, con gli utili che si andranno a fare, chiudono il cerchio dell’esposizione originale e si procurano anche una rimessa di denaro futura che sarà puro guadagno.
Nel frattempo la banca pratica il rigore altrove: chiude fidi alle famiglie o alle piccole imprese, si ingegna in nuove e costose commissioni, impone rientri, taglia mutui e prestiti, richiede garanzie personali pari anche a quattro volte la linea di credito richiesta.
Il trasferimento del rischio dalle banche al tessuto sociale non è però il solo effetto dei concordati. Infatti per salvarne una, di impresa, spesso se ne ammazzano decine. Pensate cosa sia il danno per un sub fornitore artigiano che cade nel gorgo del fallimento di un debitore e che si vede imporre, a maggioranza, un concordato al 20%. Vuol dire che se vantava un credito di 100 mila euro ne riceverà solo 20 mila. Una botta che è abbastanza per distruggere quella piccola impresa, per far saltare i posti di lavoro che garantisce e per disperdere le professionalità del titolare e dei dipendenti.
La ratio del concordato preventivo era quella di fare il possibile per consentire la prosecuzione di una attività, evitando l’evento traumatico del fallimento. E in parte dovrebbe anche garantire, se pur in una quota residuale, i creditori, sull’assunto che poco sia meglio di nulla. Il fatto è che in questa situazione, caratterizzata da crisi di mercato e di liquidità delle piccole e medie imprese, la drastica riduzione del credito esigibile non è un «meglio» rispetto a niente, ma equivale al nulla. Tanto più se quella piccola impresa si vede tagliato il credito proprio dalla banca e deve cercare di sopravvivere, pagare gli stipendi i contributi e i fornitori, con la liquidità di cui dispone.
Il diritto fallimentare non poteva, nel concepire questa procedura, prevedere la recessione. Ma è singolare che una crisi da debito, che ha visto il mondo finanziario infettato di crediti inesigibili, porti come conseguenza, per evitare i fallimenti, la distribuzione del debito privato di una impresa sulla collettività di un territorio, con i danni che è facile immaginare. Né è ammissibile che le banche finiscano per diventare, da vittime peraltro un pò colpevoli e consapevoli della bolla mondiale dei subprime, ad esecutori materiali della distruzione della ricchezza locale, del massacro delle aziende piccole, cioè la stragrande maggioranza delle realtà produttive. E diventare un problema in più per le famiglie.
Il sospetto è che l’inchiesta di questo giornale finirà per mettere in luce come nella crisi, senza che si siano ad oggi adottate dal governo politiche anticicliche e di vera ammortizzazione del danno, ognuno fa quello che può per salvare il proprio didietro. Ciascuno con la sua forza, il suo potere, la sua capacità di manovra. Alla fine della fiera, a pagare il conto sono insomma i soggetti economici e sociali più deboli, quelli che non hanno forza, capacità di manovra, potere contrattuale. Nel frattempo, c’è chi si bea che il nostro Pil sia migliore di altri nel continente, anche se a fare felici dovrebbe essere una insignificante frazione di decimale. Peccato che la distribuzione della ricchezza in Italia sia tra le più disuguali nell’Europa dell’Unione, le tasse le più alte, la povertà in esponenziale crescita, la fiducia ai minimi, il tessuto produttivo spompato. E peccato che i furbi, come appare evidente, riusciranno a far pagare il conto della crisi a quelli che neanche si sono mai avvicinati alla tavola e che oggi sono diventati i più esclusi degli esclusi.
Tutte cose che il Pil, misuratore vecchio e oramai obsoleto della ricchezza di una nazione, non dice.

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