mercoledì 20 maggio 2009

E MENO MALE CHE NOI ABBIAMO IL PROSECCO

Posto questo articolo di Gian Antonio Stella, decisamente illuminante

Xenofoba non per razzismo ma per pi­grizia, clientelismo, gelosia accademica e professionale. Risultato: su 20 milioni di laureati dei paesi Ocse che arricchisco­no i paesi nei quali si sono trasferiti, quelli che hanno scelto l’Italia sono lo 0,7%. Meno di quanti hanno scelto la Tur­chia. Un dato umiliante. Che emerge da un dettagliatissimo rapporto che animerà sabato a Pisa il convegno «Brain Drain and Brain Gain» (un gioco di parole sui cervelli in fuga e cervelli guadagnati) or­ganizzato alla Scuola Superiore «Sant’An­na » dalla fondazione Rodolfo Debenedet­ti con la partecipazione, tra gli altri, di Maria Stella Gelmini. Intitolato «La batta­glia dei cervelli: come attrarre i talenti» e curato da ricercatori di vari paesi (Her­bert Brucker della IAB, Simone Bertoli dell’Istituto Universitario Europeo, Gio­vanni Facchini della Statale di Milano), Anna Maria Mayda della Georgetown University e Giovanni Peri della califor­niana University of Davis), il rapporto esamina «le conseguenze della competi­zione internazionale per la manodopera altamente qualificata dal punto di vista dei paesi che ricevono i talenti». E i nu­meri, che sono sì del 2001 (ultimo censi­mento disponibile) ma sono inediti per­ché elaborati in questi mesi, ci fanno ar­rossire. Vi si spiega infatti che, a causa dell’«at­tuale sistema a quote» che «non mira a selezionare i lavoratori più qualificati», gli stranieri laureati che vivono da noi «sono il 12% del totale, di cui solo l’1,8% possiede anche una specializzazione post-laurea». Si tratta della percentuale più bassa tra i paesi dei quali sono dispo­nibili i dati del censimento. Di più: «Gli stranieri che arrivano nel nostro Paese sono mediamente più istruiti degli italia­ni, ma meno degli immigrati che si diri­gono in altri Paesi europei, soprattutto in quelli che adottano politiche di immi­grazione selettive». Qualche esempio? In Italia ogni cento laureati nazionali ce ne sono 2,3 stranieri contro una media Oc­se di 10,45. Negli Usa ce ne sono 11 ab­bondanti, in Austria 12, in Svezia 14, in Olanda e Gran Bretagna 16, in Nuova Ze­landa 21, in Canada 25, in Irlanda 26, in Australia addirittura 44. Va da sé che il rapporto fra «cervelli» che esportiamo e importiamo è perden­te. I laureati italiani che se ne sono anda­ti a lavorare nei 30 paesi Ocse sono 395.229. Quelli che hanno fatto il percor­so inverso 57.515. Con un saldo negati­vo di 337.714 «dottori». Saldo che, an­che ad aggiungere gli 84.903 laureati arri­vati da paesi non Ocse, resta altissimo: ci mancano 252.811 «teste». Gente che, mentre importavamo mungitori di muc­che pakistani e raccoglitori di pomodori nigeriani, ha regalato intelligenza, prepa­razione, fantasia a università e istituti di ricerca e aziende e sistemi professionali meno arroccati dei nostri. Certo, non siamo i soli ad avere un sal­do in rosso. Anche la Francia per esem­pio, rispetto al panorama import-export all’interno dell’Ocse, è sotto di circa 70mila «cervelli». La Spagna di 43mila, l’Olanda di 84mila, la Germania addirit­tura di 370mila. Ma tutte queste grandi nazioni (tran­ne la Gran Bretagna, sulla quale pesa la storica emorragia verso l’ex colonia ame­ricana) non solo attirano molti ma molti più laureati di noi ma recuperano con l’immigrazione qualificata dai paesi non Ocse fino ad andare in attivo. Peggio di noi stanno solo la Corea, il Messico e la Polonia. Quanto ai poli di attrazione, fanno in­vidia il Canada (che tra immigrati laurea­ti di paesi Ocse e non Ocse va in attivo di due milioni e 200 mila unità), l’Australia (in attivo di un milione e 520mila) e gli Stati Uniti, capaci di attrarre complessi­vamente quasi dieci milioni di «dottori» stranieri. Una forza d’urto intellettuale, scientifica, professionale impressionan­te. Che straccia ogni confronto. E che proprio in momenti di crisi quale questo rischia di pesare come l’enorme differen­za tra loro e noi. Con le nostre università piene di mogli, figli e cognati. I nostri istituti di ricerca asfissiati da conti­nui tagli di bilancio. Le nostre azien­de familiari dove il padre preferi­sce passare al figlio, magari un po’ «mona», piuttosto che affidar­si a «forestieri». I nostri Ordini sbarrati con i catenacci verso i giovani «intrusi». Certo, quelle degli altri sono società «multietniche». Che qualcuno, da noi, guarda con fa­stidio. Ma ce la possiamo per­mettere una società ermetica­mente chiusa e protetta non so­lo dalle motovedette ma anche dai vigilantes degli orticelli scientifici e professionali in un mondo in cui, come spiegava l’al­tra settimana sul «Sole 24 ore» Giorgio Barba Navaretti, i lavoratori immigrati sono «uno ogni quattro in Australia, ogni sei negli Usa, ogni nove in Gran Bretagna e ogni quindici in Ita­lia »? Certo è che i risultati sono lì, nella tabella del rapporto di Pisa: dei 20.426.737 «cervelli» del gruppo Ocse che si sono sparpagliati per il mondo con­tribuendo alla ricchezza dei paesi prescel­ti, più della metà sono finiti negli Usa, un settimo nel Canada, un dodicesimo in Au­stralia. E solo 7 su mille (sette su mille!) hanno scelto la penisola di Leonardo Da Vinci, Antonio Meucci, Enrico Fermi che non a caso forse se n’erano andati loro pure all’estero. Fate voi i conti: di questo immenso patrimonio umano e intellet­tuale mondiale siamo riusciti ad attinge­re sette gocce: la metà della Svizzera, un quarto della Francia, un settimo della Germania, un nono della Gran Bretagna. E meno male che abbiamo il sole, Vene­zia, Capri, la pizza, il prosecco...

Gian Antonio Stella
20 maggio 2009

lunedì 18 maggio 2009

I NOSTRI (BASSI) STIPENDI

Non basta l’alto livello della tassazione a giustificare il fatto che lo stipendio italiano è il più povero tra quelli che vengono erogati nei paesi “avanzati”. Lo dimostra il fatto che in Germania e in Francia l’imposizione è più alta eppure si paga di più e quindi anche meglio.
Allo stesso modo, la produttività – intesa come parte della retribuzione – e la contrattazione collettiva (come cause ei bassi stipendi) sono solo foglie di fico.
La sostanza è che invece il lavoro italiano è, nella generalità dei casi, un lavoro “povero”. Un lavoro povero che tieni in piedi un sistema di piccole o piccolissime aziende, poco strutturate, poco capitalizzate, poco propense alla spesa per investimento perché a corto (consolo da ora) di liquidità. Il lavoro poco pagato è, purtroppo, un compromesso a cui si è costretti per avare un lavoro. Ma così non va bene.
Il problema per il lavoratore italiano non si ferma qui. Perché ad uno stipendio basso corrisponde poi un’alta imposizione indiretta: dobbiamo compartecipare alla spesa sanitaria, paghiamo bollette per i rifiuti astronomiche, paghiamo bollette sull’energia carissime, la telefonia è un investimento, le tasse universitarie sono folli. Ci toccano anche il bollo, le rette degli asili nido, le tasse scolastiche alle superiori, un caro vita offensivo del buon senso. E alcune spese mediche, come ad esempio quelle dentistiche, che sono del 15% superiori alla media Ue, senza contare che siamo un paese in cui nei fatti il dentista della mutua non esiste. O se esiste qualche volta è meglio evitarlo.
Tutto questo descrive una situazione deprimente. Paghiamo tasse molto alte ma riceviamo servizi pessimi, o quando va bene scadenti. E ne riceviamo sempre meno.
Lavoriamo tanto ma siamo pagati poco. E le famiglie non sono aiutate per nulla, visto che quanto ad assegni e sostegni economici stiamo in fondo alla classifica dell’Unione perché facciamo meglio solo di Portogallo e Grecia.
Dobbiamo stare molto attenti: il lavoro mal pagato è la maniera migliore per farci scappare le teste migliori. E oramai da tempo stiamo assistendo ad una ripresa dell’emigrazione, soprattutto da parte dei giovani con maggiore scolarizzazione e cultura, oltre che di maggiori competenze specifiche.
Ora: tutti, sulla notizia che oggi abbiamo trovato nei nostri giornali http://www.corriere.it/economia/09_maggio_17/salari_ocse_437b9714-42e1-11de-94da-00144f02aabc.shtml, fanno la corsa per darle un senso rispetto alla propria posizione politica, o sindacale. Alla fine della fiera, tra chi attacca, chi giustifica e chi minimizza (pochi spiegano) restiamo noi con il cerino acceso.
Se qualcuno chiedesse a me cosa farei io, posso solo rispondere sulla base della mia esperienza di imprenditore: io non strapago i miei dipendenti, ma credo di dare loro quanto è giusto ricevano per il lavoro e lo sforzo che fanno, e il contributo che danno alla sopravvivenza e al successo delle mie imprese. Non butto via i soldi, ma non faccio il tirchio. Né mi nascondo dietro alla parola flessibilità per cercare lavoro a buon mercato. Ovviamente loro vorrebbero di più, facendo i loro interessi. E io faccio i miei. Ma sono sicuro di una cosa: pagare male non è solo lesivo della dignità del lavoratore. E’ anche una offesa al suo tentativo di avere una esistenza che sia di più che semplicemente dignitosa. E pagare male è anche la maniera migliore per far lavorare male.
Ovvio che, per pagare bene, bisogna fare cose che siano remunerative.
Ecco il bivio a cui siamo: o migliorare e migliorarci, o continuare a fare economia di serie B. A pagare poco, a far vivere male. Se poi lo Stato, di suo, ci mette tasse alte e nessun servizio in cambio, il circolo vizioso è bello che chiuso. E il Paese va in crisi di suo, senza bisogno del crollo delle borse.

TREVISO DI NOTE

venerdì 8 maggio 2009

CANONE FOGNARIO

Avrete, credo, letto la polemica sui giornali, relativa alla "querelle" tra me e l'assessore Zugno sulla questione dei requisiti necessari per richidere il rimborso. Per questo pubblico il comunicato stampa che ho inviato ai giornali, in cui spiego chiaramente cosa dice il parere della Corte dei Conti.

Per la restituzione del doppio canone fognario è illegittimo l’onere di allegare fatture e quietanze

Lo dice proprio il parere inviato dalla Corte dei conti al Comune di Treviso.


“Proprio in ragione del contenuto del parere della Corte dei Conti confermo tutti i miei dubbi sulla modulistica approntata dal Comune per la restituzione del doppio canone fognario”.
Paolo Camolei risponde così alle accuse dell’assessore Zugno.
Spiega Camolei: “La Corte dei Conti Veneto, nel parere reso il 23 aprile proprio su richiesta del Comune di Treviso, dice esattamente il contrario di quello che continua inopinatamente a sostenere l’Assessore sull’onere di allegazione, cioè sull’obbligo, inesistente e se richiesto illegittimo di documentare le domande di rimborso con fatture e quietanze, relativamente al pagamento del canone e ai servizi di espurgo di vasche per utenze non collegate alla rete fognaria.
La Corte evidenzia infatti che, mentre prima dell’emanazione della L. n. 13/2009 si poteva pensare che le domande di rimborso operassero sul piano privatistico, e che quindi il principio da applicarsi fosse quello dell’onere di allegazione proprio di ogni domanda di restituzione di indebito, dopo l’introduzione dell’art. 8 sexies della L. 13/2009 (cioè proprio la “disposizione-beffa” dovuta all’intervento del senatore trevigiano Stiffoni, che consente ai Comuni di dilazionare in cinque anni la restituzione e legittima un rimborso parziale prevedendo la deducibilità delle spese sostenute per la realizzazione degli impianti di depurazione) e l’obbligo imposto agli Enti locali di emanare atti amministrativi volti a quantificare l’importo da restituire hanno fatto mutare la prospettiva, determinando il passaggio dal piano del diritto privato a quello del diritto pubblico”.
“Questo significa in maniera incontrovertibile che gli obblighi imposti all’Amministrazione dall’art. 8 sexies in ordine all’emanazione di atti determinativi del quantum “pongono a carico dell’Amministrazione pubblica i conseguenti adempimenti sulla base della documentazione già detenuta” (testuale, pag. 7-8 parere C.d.C.)”.
“E tutto questo malgrado sia pur vero che la Corte precisi anche che si è ancora in attesa (come previsto dal 4° comma dell’art. 8 sexies) dell’emanazione dei decreti con cui il Ministro dell’ambiente determinerà i criteri per il calcolo dei costi di progettazione da dedurre dal rimborso, e che quindi la problematica presenta ancora aspetti non completamente definiti. Ma è anche evidente che al momento attuale risulta ormai del tutto illegittima l’imposizione dell’onere di allegazione”.
“A questo punto - ha detto Camolei - c’è da auspicare che l’Assessore Zugno si affretti, come egli stesso aveva preannunciato nel suo ultimo intervento in Consiglio, a comunicare ai cittadini di Treviso la superfluità dell’allegazione delle fatture e quietanze richieste fino ad oggi, rivendendo la modulistica già predisposta. Questa non è una questione politica, ma di rispetto per le regole e per i cittadini, a cui francamente non credo sia giusto applicare meccanismi burocratici onerosi e per certi versi persino persecutori”.
“Quanto alla questione Aertre – ha concluso Camolei – Zugno può ben definirmi trombato. E’ un insulto che scivola senza fare danni sul piano inclinato della mia indifferenza. Del resto, se così si può dire, sono io stesso ad aver fatto e detto di tutto, come ricordano le cronache dei giornali, per essere trombato in una situazione che non corrispondeva più al lavoro che era stato da me svolto come presidente di Aertre, con un piano industriale e un assetto su cui io non potevo più riconoscermi. Dell’associazione “Per Treviso”, poi, sono orgoglioso. E la nostra esperienza elettorale vale il 7,1% dei voti dei trevigiani. Secondo me non è poco”.

Treviso, 5 maggio 2009