venerdì 30 ottobre 2009

IL CONTO SALATO DEI CONCORDATI (il mio editoriale di oggi su Tribuna di Treviso)


Questo giornale si è imposto, attraverso un’inchiesta, di spiegare ai suoi lettori come sia possibile salvare imprese destinate al fallimento trovando un accordo per cui i creditori si accontentano di una parte residuale di quanto spetterebbe loro, a volte anche solo un sesto del credito originario.
E siccome nessuno fa nulla per nulla, viene spontaneo chiedersi anche, e provare a capire, chi e come ci guadagni da questo meccanismo e chi, al fondo della «catena alimentare economica», si ritrovi con il cerino in mano senza poterlo dare a qualcun altro.
Nel suo editoriale, Enrico Pucci propone domande a cui in fondo già da delle risposte. In effetti i principali beneficiari dei concordati sono le banche, creditori chirografari, non privilegiati, che non hanno nessun interesse a far fallire una azienda, soprattutto se una grande azienda, rispetto alla quale vantano crediti, sotto qualsiasi forma. E questo non solo perché rientrare anche solo del 16% è sempre meglio che non rientrare di nulla, come spesso succede nei fallimenti. Ma anche perché dal momento che il concordato viene concesso lì dove ci sia un piano industriale che consente un effettivo rilancio delle attività, gli istituti di credito spesso entrano nel capitale sociale dell’azienda risanata. Così, con gli utili che si andranno a fare, chiudono il cerchio dell’esposizione originale e si procurano anche una rimessa di denaro futura che sarà puro guadagno.
Nel frattempo la banca pratica il rigore altrove: chiude fidi alle famiglie o alle piccole imprese, si ingegna in nuove e costose commissioni, impone rientri, taglia mutui e prestiti, richiede garanzie personali pari anche a quattro volte la linea di credito richiesta.
Il trasferimento del rischio dalle banche al tessuto sociale non è però il solo effetto dei concordati. Infatti per salvarne una, di impresa, spesso se ne ammazzano decine. Pensate cosa sia il danno per un sub fornitore artigiano che cade nel gorgo del fallimento di un debitore e che si vede imporre, a maggioranza, un concordato al 20%. Vuol dire che se vantava un credito di 100 mila euro ne riceverà solo 20 mila. Una botta che è abbastanza per distruggere quella piccola impresa, per far saltare i posti di lavoro che garantisce e per disperdere le professionalità del titolare e dei dipendenti.
La ratio del concordato preventivo era quella di fare il possibile per consentire la prosecuzione di una attività, evitando l’evento traumatico del fallimento. E in parte dovrebbe anche garantire, se pur in una quota residuale, i creditori, sull’assunto che poco sia meglio di nulla. Il fatto è che in questa situazione, caratterizzata da crisi di mercato e di liquidità delle piccole e medie imprese, la drastica riduzione del credito esigibile non è un «meglio» rispetto a niente, ma equivale al nulla. Tanto più se quella piccola impresa si vede tagliato il credito proprio dalla banca e deve cercare di sopravvivere, pagare gli stipendi i contributi e i fornitori, con la liquidità di cui dispone.
Il diritto fallimentare non poteva, nel concepire questa procedura, prevedere la recessione. Ma è singolare che una crisi da debito, che ha visto il mondo finanziario infettato di crediti inesigibili, porti come conseguenza, per evitare i fallimenti, la distribuzione del debito privato di una impresa sulla collettività di un territorio, con i danni che è facile immaginare. Né è ammissibile che le banche finiscano per diventare, da vittime peraltro un pò colpevoli e consapevoli della bolla mondiale dei subprime, ad esecutori materiali della distruzione della ricchezza locale, del massacro delle aziende piccole, cioè la stragrande maggioranza delle realtà produttive. E diventare un problema in più per le famiglie.
Il sospetto è che l’inchiesta di questo giornale finirà per mettere in luce come nella crisi, senza che si siano ad oggi adottate dal governo politiche anticicliche e di vera ammortizzazione del danno, ognuno fa quello che può per salvare il proprio didietro. Ciascuno con la sua forza, il suo potere, la sua capacità di manovra. Alla fine della fiera, a pagare il conto sono insomma i soggetti economici e sociali più deboli, quelli che non hanno forza, capacità di manovra, potere contrattuale. Nel frattempo, c’è chi si bea che il nostro Pil sia migliore di altri nel continente, anche se a fare felici dovrebbe essere una insignificante frazione di decimale. Peccato che la distribuzione della ricchezza in Italia sia tra le più disuguali nell’Europa dell’Unione, le tasse le più alte, la povertà in esponenziale crescita, la fiducia ai minimi, il tessuto produttivo spompato. E peccato che i furbi, come appare evidente, riusciranno a far pagare il conto della crisi a quelli che neanche si sono mai avvicinati alla tavola e che oggi sono diventati i più esclusi degli esclusi.
Tutte cose che il Pil, misuratore vecchio e oramai obsoleto della ricchezza di una nazione, non dice.

lunedì 26 ottobre 2009

IL SENSO DELLA STORIA


"Un senso a questa storia" era lo slogan scelto da Bersani per le primarie del Partito Democratico.
Ora che è stato eletto segretario, un senso a quella storia, la storia della lunga trasformazione del Pci, della confluenza con la parte di sinistra degli ex popolari, del nuovo partito che per un po' è sembrato quello del "né né", della necessità di trovare una collocazione politica che non forse cerchio-bottista, Bersani lo può dare.
Con lui il Pd assume una immagine decisamente più di sinistra, come più di sinistra è l'uomo, rispetto a Franceschini. Che cosa questo voglia significare lo scopriremo nei prossimi giorni, cercando anche di capire se ci sarà la fronda interna, la scissione minacciata da Rutelli o l'opposizione dura a cui è tentato lo sconfitto delle primarie.
Se non altro i democratici, per volere del loro "popolo", ritrovano un identità precisa, cosa che avevano perso nel lungo percorso di costruzione. E con questa identità di sinistra, che evidentemente l'elettorato sentiva bisogno, Bersani si presenterà a fare i conti con la destra e con il centro.
Più che a colpi di legge elettorale maggioritaria, questa è la semplificazione di cui si sente il bisogno; non importa se si condivide o meno il messaggio e il programma del Pd di Bersani perchè ora la politica italiana prende una forma più definita: da un lato una sinistra che ha ancora in sé forti richiami socialdemocratici, dall'altro una destra populista, in mezzo un centro popolare.
Da domani la politica non sarà più la stessa, ammesso che il Pd non si dissolva per fuga della sua parte di centro; ma anche questa, in fondo, sarebbe una evoluzione chiarificatrice.
Insomma, più giochetti: l'elettorato ha uno strumento in più per capire, e per decidere.

venerdì 23 ottobre 2009

CARO BERSANI, IL PUNTO NON E' PIU' L'ANTIBERLUSCONISMO


Sarà generosa, dice lui, l'offerta che verrà dal Pd se Bersani verrà eletto segretario del partito alle primarie. Una offerta , riportano i giornali di oggi "generosa" con l'Udc e le altre forze di opposizione, perchè "il premio dell'antiberlusconismo lo vince chi manda casa le destre".
Sembra l'idea di un Ulivo allargato all'Udc, cosa che francamente non vuol dire nulla, Nè appare poi così generosa. Ma che soprattutto denota una certa "debolezza" politica del Pd: il carrozzone dell' "anti", piuttosto che il programma e il progetto politico "per".
Difficile, francamente, che possa reggere l'idea di mettere insieme Pd e Udc, e Udc con i comunisti e "questo" Di Pietro. Dalla sinistra radicale l'Unione di Centro è separata, credo irrimediabilmente, da idee, programmi e valori. Da "questo Di Pietro" soprattutto ci separano i modi: non che i temi portati all'attenzione dall'Idv non siano meritevoli di considerazione o non sia importanti, rilevanti e urgenti. Ma non mi sento di essere contro la maleducazione lessicale della destra perchè è destra (e perché non né condivido i contenuti) e passar sopra alla maleducazioen lessicale di di Di Pietro (penso agli attacchi contro il Presidente Napolitano) perchè entrambi stiamo all'opposizione.
Semmai, in Veneto come altrove, è LA QUESTIONE è politica. Stare insieme al Pd (e non mi nascondo che per tanti elettori "storici" dell'Udc sarebbe una cosa complicata da digerire) non mi spaventa in quanto tale; così come non mi spaventerebbe, anzi, ritrovare tanti moderati della Pdl in un progetto comune di Partito Popolare (che è poi il nome che a me sarebbe piaciuto come sbocco della costitutente di centro). Il nodo è infatti questo, polItico: non so cosa voglia rappresentare il Pd, se un nuovo partIto socialdemocratico o un soggetto con una sua originalità. Non vedo chiaro su quali valori si posizioni, così come ad oggi non è chiaro come e perché, al suo interno, convivano diversità che sono anche contraddizioni.
Come Unione di Centro noi puntiamo alla realizzazione di un soggetto nuovo, moderato ma fortemente riformista e liberale. Penso che, sulla lunga distanza, sia un progetto alternativo al Pd. Ma in via contingente, se è l'anomalia della videocrazia populista e autoritaria quello che si vuole superare, e se il processo è quello di far far fare meno danni possibili alle ali estreme (in questo momento Lega e Idv), il confronto può restare aperto. Ma dobbiamo parlarci, e chiaramente, di valori, di idee, di programmi. E' intorno a questo, come avvenuto in Trentino, che si può trovare una convergenza. Sul fare, non tanto sull'essere.
Ma per essere generosa, come dice lui, l'offerta di Bersani dovrebbe mettere sul tavolo questi spunti di confronto, tralasciando parole vecchie e perdenti, come l'antiberlusconismo. L'accozzaglia di quelli che stanno insieme solo perché hanno in comune uno che ti sta sulle scatole a tutti non è politica. E' confusione. Per questo, allo stato dei fatti, tra Udc e Pd la distanza resta. E sarà molto difficile colmarla.

martedì 20 ottobre 2009

IL CREDITO ALLE FAMIGLIE IN DIFFICOLTA' A TREVISO. UIL E PD PROPONGONO UN FONDO PUBBLICO DI GARANZIA. LA NOSTRA POSIZIONE

COORDINAMETO PROVINCIALE
UNIONE DI CENTRO


COMUNICATO STAMPA


Credito ai lavoratori in difficoltà, sì ad un confronto Provincia, parti sociali e istituti di credito del territorio

Paolo Camolei avverte: “Attenti a non pensare di uscire da una crisi da debito solo con altro debito a carico delle famiglie. Dubbi sulla possibilità di finanziare un fondo pubblico di garanzia”



“E’ giusto fare tutto quello che è possibile per sostenere le famiglie in difficoltà economica, e fare di più rispetto ad oggi. Ma quando si chiede un fondo pubblico di garanzia per il credito al consumo a rischio, perché chiesto da chi non ha più il reddito, bisogna anche dire per che cosa e come lo si finanzia, altrimenti sono le solite parole al vento”.
E’ il giudizio di Paolo Camolei, membro del coordinamento provinciale dell’Unione di Centro, rispetto alla proposta del segretario della Uil Antonio Confortin e condivisa dal Partito Democratico, sull’opportunità di creare un fondo pubblico provinciale a garanzia delle richieste di credito al consumo da parte di lavoratori disoccupati o cassaintegrati.
“Attenzione alla ricette improvvisate, non si esce da una drammatica crisi causata anche dall’eccesso del debito privato finanziando altro debito, per quanto sia condivisibile l’idea di trovare formule per gestire quelle emergenze economiche a cui famiglie che perdono il reddito possono far fronte solo attraverso un prestito. Il punto è quello di trovare equilibrio fra le preoccupazioni delle banche, che non possono trovarsi a gestire crediti che divengono inesigibili, e il bisogno di traghettare chi è impoverito attraverso questa fase complicata. Un confronto con gli istituti di credito, su modalità e criteri di erogazione da un lato e tasso di interesse d’altro, può essere una strada da percorrere e su questo credo che la Provincia debba aprire una discussione costruttiva con le parti sociali e le banche del territorio”.
“Sulla proposta del fondo pubblico di garanzia rimane comunque il nodo di come finanziare queste misure straordinarie, soprattutto in una fase che vede i bilanci degli enti pubblici fortemente penalizzati dalle regole sul rigore della spesa e la riduzione degli introiti fiscali a causa della crisi. Le belle idee rimangono tali se non si riesce a dare concretezza. Senza dimenticare che l’uscita da questa condizione di impoverimento non può avvenire attraverso la creazione generalizzata di nuovo debito, ma lavorando perché tornino le condizioni per una nuova e buona occupazione”.

Treviso, 20-9-2009

MODERATI RIFORMATORI E LIBERALI: INSIEME!

COORDINAMETO PROVINCIALE
UNIONE DI CENTRO


COMUNICATO STAMPA


APPELLO DELL’UDC PROVINCIALE: UNITA’ DEI MODERATI LIBERALI E RIFORMATORI



“Ai moderati stanchi del mercato delle vacche che svende l’Italia, il Veneto e la nostra provincia alla Lega diciamo: facciamo subito nella Marca l’unità dei moderati riformatori e liberali per lavorare insieme ad un nuovo soggetto ispirato al popolarismo italiano ed europeo”.
E’ l’appello rivolto oggi da Paolo Camolei, componente del coordinamento provinciale dell’Unione di Centro e capogruppo, in consiglio comunale a Treviso, di “Per Treviso-Udc”.
“Non è un appello rivolto solo agli scontenti della Pdl ma una proposta politica che punta a costruire una alternativa al ricatto politico della Lega, che grazie alla debolezza del Presidente del Consiglio, riesce a tenere in scacco la politica e il Paese. Ma i liberali riformatori, anche a Treviso, hanno una alternativa all’estremismo e ai giochini partitocratici: contribuire a costruire insieme un soggetto politico nuovo, moderato nei modi ma profondamente riformista, capace di costruire su valori condivisi quella modernità liberal-democratica di cui si sente un urgente bisogno”.
“Ai balletti di nomi per questa o quella carica l’Unione di Centro trevigiana preferisce la discesa sul piano della proposta e dei programmi, per una politica che torni ad essere fatta di idee e non di caselle con posti di potere da riempire. Il nodo Galan, qualunque sarà l’epilogo della vicenda, ha posto una questione politica che i liberali della Pdl non possono più eludere, sempre che non si voglia proseguire a sacrificarsi in nome degli accordi siglati ad Arcore che non tengono in minima considerazione il territorio. Per questo il percorso della cosiddetta Lista Civica, proposta dal segretario regionale De Poli all’attuale governatore della Regione, può trasformarsi, da scelta tattica e contingente, a progetto di unità dei moderati riformatori contro i conservatorismi di destra e sinistra. E questo cammino può iniziare concretamente anche a Treviso, per aprire spazi e prospettive nuove alle imposizioni della Lega e al quel metodo di governo del Carroccio che coltiva e gestisce la paura ma non risolve i problemi concreti dei cittadini”.

Treviso, 20-10-2009

L'IMPEGNO

Cari amici, so che ci siete, anche se non commentate di frequente, ma tra questo blog e facebook ora i riscontri diventano più assidui.

Vi devo qualche notizia: dalla settimana scorsa sono entrato a far parte del coordinamento provinciale di Treviso dell'Unione, il partito nuovo (e non solo un nuovo partito) che mette insieme le esperienze poltiche dell'Unione dei Democratici cristiani, quella della Rosa Bianca, delle liste civiche (di cui sono un rappresentante) e, in veneto, del Veneto per il Partito Popolare Europeo.

Giovedì scorso, a Treviso, abbiamo tenuto la nostra prima vera assemblea. Quella ell'Unione di Centro è una bella avventura, a cui partecipo con entusiasmo. E nella speranza di poter contribuire a questo nuovo soggetto: liberale e riformatore, che mette insieme laici e cattolici ma tenuti insieme dal collante dei valori della nostra civiltà, dal senso di servizio verso le comunità, dalla voglia di fare e dimostrare una politica nuova, più attenta alle esigenze dei cittadini, davvero federalista, davvero attenta alla valorizzazione del territorio, delle sue tradizioni, senza le chiusure xenofobe che ben conosciamo e che non ci appartengono. E che ha nella dottrina sociale della Chiesa e nell'economia sociale di mercato punti fermi per dare risposta alla domanda: ma che società vogliamo?

Lontano da facili semplificazione e banalizzazioni, il nostro è un partito che discute, con passione, anche su temi delicati e sensibili come quelli dell'etica, sulla base della libertà della coscienza e nello stesso tempo dell'adesione a principi fondamentali che appartengono a noi tutti: laici, cattolici, credenti e non credenti.

Questo impegno mi porterà ad aggiornare questo blog con maggiore assiduità, con più attenzione, cercando di approffondire tanti temi con voi. Non voglio sapere come la pensate per poi dirvi che avete ragione e chiedervi i voti, voglio sapere cosa pensate, come vivete, che proposte fate, che bisogni ritenete urgenti, con uno spirito critico e costruttivo.

Spero si potrà fare, arricchendoci insieme, indipendentemente dal partito per cui si vota o si è votato.

Vi saluto tutti

lunedì 12 ottobre 2009

PIU' SATIRO CHE INTELLIGENTE? LE DONNE SECONDO SILVIO


La rozzezza dell’infelice battuta “lei è più bella che intelligente” che Silvio Berlusconi ha rivolto a Rosy Bindi è solo un ennesimo esempio della volgarità istituzionale a cui il Premier si lascia consapevolmente andare quando entra in difficoltà.
Il rosario di scorrettezze verbali, rivolte non solo agli avversari ma anche al Presidente della Repubblica e alla Corte Costituzionale, sono la cartina di tornasole con cui si misura l’onnipotenza che Berlusconi si attribuisce, da cui discende naturalmente il desiderio di impunità, reso tanto più urgente quanto è complessa la situazione giudiziaria di un Presidente del Consiglio che non è perseguitato, ma semmai a rischio di essere perseguito, il che è una cosa molto diversa.
Il dizionario della gretta semplicità nella comunicazione politica, che fa presa in buona parte dell’elettorato, è un codice di comportamento che discende da Roma alla politica locale, come peraltro insegnano bene anche le vicende trevigiane, dove tra liste di proscrizione dei culattoni e delle lesbiche e comportamenti arroganti e autoritari della maggioranza che regge Ca’ Sugana, la politica si esprime con volgarità e grettezza ricevendo in cambio, dall’elettorato, una gratificazione in termini di consenso che va capita, ma che sconcerta pure.
Quanto all’offesa di Berlusconi alla Bindi il punto non è quello di inalberarsi in difesa del bon ton della lingua e del rispetto dei generi contro il machismo da osteria di cui purtroppo anche il Premier di tutti gli italiani si rende capace. Ci si dovrebbe invece chiedere che cosa pensino le donne di un Presidente del consiglio untore di una in-cultura arretrata, che continua a considerare le “femmine” come un combinato di tette e culi solo incidentalmente accessoriate di cervello. Quindi l’idea della “gnocca” suppellettile che porta alla pratica di affollare le proprie feste private di donnine e i dicasteri ministeriali di ex pin up, meglio se con l’aria un po’ svampita.
Quanto alle donne e ai loro giudizi, penso soprattutto a quelle donne che fanno politica quotidianamente e soprattutto a quelle che si impegnano nelle fila della Pdl e della Lega. E’ da loro che dovrebbe venire uno scatto di ribellione, anche pubblicamente silenziosa non per questo meno urlata nei loro ambienti, che ci aiuti a mandare in soffitta il vero problema della democrazia, da Roma a Ca’ Sugana, che è l’affermarsi di una politica indifferente alle regole, leaderista e quindi naturalmente portata alle spinte autoritarie, volgare e che coltiva la volgarità anche nella società, giusto per rappresentarla meglio.
L’idea, come padre, che mia figlia possa, nell’Italia figlia di 15 anni di berlusconismo, essere considerata e valutata nella generalità dei casi più per la lunghezza delle sue gambe che per la sua personalità o intelligenza mi rivolta. Così come non se ne può più di quella cultura maggioritaria, ben messa in vetrina dalla Mediaste del Presidente del Consiglio come dalla controllata Rai, che propone modelli di donna che percorrono, come strada verso il successo personale, i vicoletti dei reality o del velinismo, in cui ottenere fama e successo esibendosi cretine.
Se proprio non si riuscirà a convincere Berlusconi a rappresentare un centro destra degno di essere riconosciuto come schieramento di destra costituzionale, ci sarebbe da augurarsi che il buon senso e la buona educazione della gente freni la deriva dalla repubblica delle banane alla repubblica del mignottismo fondata, al suo primo articolo, sulla cultura della sputatata per terra e della innocente palpata gaudente alla prima chiappa che passa.

mercoledì 7 ottobre 2009

IL FORTINO DI CA' SUGANA. L'EDITORIALE DI OGGI DEL DIRETTORE DI TRIBUNA MOSER SULLE DELIBERE DI INIZIATIVA POPOLARE A TREVISO

Ciao, lettori. Come avrete letto sui giornali (poco, a dire il vero), la nostra iniziativa per introdurre le delibere di iniziativa popolare anche a Treviso è fallita, sotto i colpi della mannaia di regime di lega e Pdl.

Posto, sulla vicenda, il bell'editoriale scritto dal direttore di Tribuna di Treviso, Sandro Moser, e pubblicato quest'oggi.



Non disturbare il manovratore. Da anni è questa - o meglio, vorrebbe essere questa - l’aspirazione della maggioranza che governa Treviso. E bisogna dire che in questa partita la giunta Gobbo ha segnato un ottimo punto nell’ultima seduta del consiglio comunale, quando è stata bocciata la proposta di istituire anche a Treviso, come in tante altre città, la «delibera di iniziativa popolare» proposta da Paolo Camolei (come tutti sanno, un noto estremista). Un buon punto per la giunta Gobbo, una pessima cosa per Treviso e per i suoi cittadini. Con una «delibera di iniziativa popolare» un gruppo di cittadini - raccolto un certo numero di firme - può mettere a fuoco un proporre una soluzione e chiedere che il consiglio comunale, in tempi ragionevoli, ne discuta e decida in proposito. Può essere un sì, può essere un no. Ma una risposta, a quei cittadini, deve arrivare e tutto avviene in modo trasparente.
Perchè la bocciatura della proposta di Camolei è grave e ci chiama in causa tutti? Perchè la «delibera di iniziativa popolare» è uno strumento autentico di partecipazione democratica, di responsabilizzazione e di crescita civile.
In tutti i comuni italiani esiste un problema di partecipazione. Sindaco e giunta possono tutto e i consigli comunali sono sempre più spesso declassati al ruolo di notai, piuttosto che di vere assemblee in cui la discussione è libera e fattuale. Un problema reso più acuto, a Treviso, da anni e anni di monocolore leghista e dalla sua concezione autoritaria del governo. L’ingresso in maggioranza del Pdl avrebbe potuto dare un po’ d’aria a Palazzo dei Trecento. In molti se lo aspettavano, ma questo finora non è avvenuto.
In ogni caso lo spazio di discussione si è ridotto e una conseguenza non banale è stato il proliferare, spesso disordinato, dei comitati di protesta. Accettare l’istituzione della «delibera popolare» avrebbe potuto riequilibrare la dialettica sul merito dei problemi della città, incoraggiando la partecipazione dei cittadini. Ma Gobbo non l’ha voluto. A lui le cose stanno bene così.
Organizzare una protesta attorno a un istituto come la «delibera popolare» significa anche assumersi una responsabilità: i problemi vanno studiati, le soluzioni vanno meditate. Significa anche imporre responsabilità: come detto, giunta e consiglio comunale possono anche rispondere picche. Ma devono argomentare. A loro volta devono studiare e meditare. Diciamo che c’è meno spazio per ideologismi e strumentalizzazioni e più spazio per i ragionamenti di merito. Da entrambe la parti.
Studiare, meditare, assumersi la responsabilità di un atto concreto come una «delibera popolare» vuol dire anche crescere civilmente. Come? Razionalizzando la propria insofferenza, dando una forma compiuta alle proprie rivendicazioni, sforzandosi di individuare soluzione praticabili. Esattamente il contrario di quello che succede troppo spesso con i comitati di protesta che nascono e muoiono, appunto, nel fuoco effimero della protesta, che non sa diventare proposta perchè non ha gli strumenti per farlo. Ma anche qui è comprensibile che un manovratore - che non ama essere infastidito - preferisca le urla alle argomentazioni nero su bianco di una «delibera popolare». Alle urla si può rispondere con un’alzata di spalle: prima o dopo cessano per mancanza di fiato. A una «delibera popolare» bisogna rispondere.
Partecipazione democratica, responsabilità, crescita civile: a noi sembrano ottime cose. Alla giunta Gobbo invece no. E per sotterrare la proposta di Camolei, Ca ’Sugana si è messa d’impegno. Prima ostacolandone il viaggio verso il consiglio con un sacco di bizantinismi. Poi in commissione - e questo passaggio merita di essere raccontato - cercando di sterilizzarne la portata. Ad esempio proponendo con un emendamento di portare da 350 a 1.500 le firme necessarie per avviare una «delibera popolare». Solo per capire a Roma e Milano ne sono necessarie 5 mila. Oppure, altro esempio, limitando in modo drastico le materie trattabili. Modifiche, insomma, strumentali.
Dunque, la partita è chiusa? Forse, ma ci piacerebbe che - reso onore alla sconfitta di Camolei - tutta l’opposizione per una volta trovasse un punto di incontro e richiamasse Gobbo alla rivincita, ripresentando la proposta di dare anche a Treviso il diritto di presentare una «delibera di iniziativa popolare». E che insieme all’opposizione arrivasse a Ca’Sugana anche la voce di quei trevigiani che sono stufi di sentirsi esclusi dal Fortino Ca’Sugana.