giovedì 30 luglio 2009

IL PARTITO DEL SUD

Sono cambiate tante cose in Italia negli ultimi venti anni, più o meno dalla caduta del muro di Berlino e la stagione della Seconda Repubblica, ma il nodo del sud, la cosiddetta “Questione Meridionale”, è rimasta tale e quale.
Il meridione rimane un’area fortemente arretrata del Paese, economicamente e socialmente, caratterizzata dalla cattiva gestione, dagli sprechi, dagli alti livelli di disoccupazione e presenza invasiva nel territorio della criminalità organizzata; e rimane identico il modo di affrontare tutti questi problemi, cioè nel solco del clientelarismo più smaccato.
Ne sono una dimostrazione i fatti della cronaca politica di questi ultimi giorni, cioè il ricatto del cosiddetto “partito del sud”, che costringe ora Berlusconi a fare quello che, secondo i neo-meridionalisti, non avrebbe fino ad oggi fatto per colpa della Lega e di Tremonti.
E’ vero: il sud non decolla perché non ci sono politiche di ampio respiro che lo mettano in condizione di liberare le energie e non continuare ad essere solo una costosa zavorra, che mortifica le aspirazioni di benessere e riscatto della sua gente. E’ anche vero però che l’unica chance per il Sud è il federalismo, cioè il riappropriarsi con responsabilità, da parte dei cittadini, del loro destino e della possibilità di amministrarsi senza dover contare sui regalini di Roma. Ovvero tutto il contrario, è bene dirlo, della “centralizzazione” della gestione degli interventi promessi dall’esecutivo.
Al momento invece, malgrado la riforma federalista diventata legge dello Stato ma fumosa e di difficile applicazione, la politica meridionalista va alla riscossa facendo cioè suonare in testa al primo ministro il campanello d’allarme di una secessione morbida dal centrodestra, che tolga forza all’attuale maggioranza e al Popolo della Libertà. Argomenti verso cui Berlusconi è sensibilissimo: e infatti invece di commissariare Campania e Calabria a causa della malagestione, ricavandone magari persino risparmi da reinvestire, il premier ha deciso l’ennesimo piano straordinario, fatto sì di investimenti, ma che promette soprattutto, malgrado quanto detto proprio dal Primo Ministro, nuovo lustro a quella classe di politici che si è sentita emarginata per l’emergere dei leghisti e il peso che questi hanno acquisito in seno all’alleanza che governa a Roma.
Chi pagherà tutto questo? Di sicuro noi. Chiamiamolo, se vogliamo, un ennesimo costo della politica. E chi può difenderci da questa nuova degenerazione assistenzialista? Da queste parti verrebbe da dire la Lega, se non fosse che il Carroccio non è più partito di rottura, ma è parte fondamentale di una maggioranza che, nel suo governare con il metodo della ricerca del consenso, ha fatto e continua a fare degli equilibrismi e dei compromessi il proprio modo di tirare avanti.
Il vero problema che il parlamento dei nominati, asserviti al capo e non espressione dei loro elettori, non ha strumenti per proteggere i cittadini contribuenti dagli sprechi della partitocrazia. Senza una riforma che metta al centro il rapporto fra eletto ed elettori, con il primo espressione territoriale del collegio e chiamato a rispondere del suo operato ai secondi e non alle segreterie di partito, non c’è Lega che tenga: i ricatti della “grande politica” continueranno, facendo pagare a noi il conto salato e sacrificando gli interessi generali del Paese sull’altare delle pressioni di questa o quella cordata localista.
Risultato: a Nord riprenderà fiato e forza l’antimeridionalismo, a sud si ricostituiranno le clientele. In mezzo ci stiamo noi, alle prese con la crisi e un bilancio nazionale che non ha soldi per farcela affrontare come si deve.
Se il resto della politica, dal Pd alla Pdl pensando per il Centro, non svolterà verso una riforma federale non solo dello Stato ma anche di sé stessa, mettendo cioè i territori, gli elettori e i politici locali nel ruolo di protagonisti, si lascerà alla Lega il monopolio nel frenare il neo assistenzialismo meridionalista. Sapendo però che, in fondo, al partito di Bossi il rifiorire della stagione delle casse del mezzogiorno può, elettoralmente, fare molto comodo, dato che sarebbe un argomento in più da usare per distinguersi e mettersi in mostra.
Fa invece molto male al resto del Paese, che di tutto ha bisogno fuorché di una nuova era di assistenzialismo sprecone, quello per intenderci delle pensioni di invalidità date ai ciechi che guidano i taxi.
Se la questione meridionale non svolta ma continuerà ad essere gestita alla solita maniera, i danni non saranno solo economici, ma anche morali, perché si alimenterà ancora di più, qui a Nord, la preoccupante e crescente disaffezione, che è la strada maestra al populismo demagogico.
Solo l’idea federale della politica e una riforma elettorale che faccia tornare la preferenza possono permettere all’Italia di andare avanti e di evitare quella secessione delle coscienze che è molto più vera e pericolosa della folcloristica secessione della Padania.

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