giovedì 14 gennaio 2010
LA RIFORMETTA PER I RICCHI (il mio editoriale di ieri su La Tribuna di Treviso)
E’ dal 1994 che Silvio Berlusconi propone e sogna una riforma delle imposte sulle persone fisiche che abbia come approdo l’adozione di due solo aliquote. A dire il vero allora, al suo primo giro di giostra da Premier, parlava anche di quoziente familiare, cioè la vera riforma del fisco che andrebbe attuata, ma poi lo ha lasciato nel dimenticatoio, come se fosse un dettaglio.
Affrontare il tema dei soldi, e di tasse, in questo momento è indubbiamente la scelta giusta. Il Paese è in difficoltà per la crisi economica e il messaggio, lanciato non a caso alla vigilia delle elezioni regionali, trova la gente molto sensibile. Sicuramente interessa quel blocco sociale di elettori del centrodestra e della Lega che vede nel fisco il nemico numero uno della sua prosperità. Un ragionamento che in Veneto, bombardati dall’antistatalismo un po’ iperliberista e un po’ secessionista, trova e soprattutto genera grandi consensi.
Ma la manovra rischia di rivelarsi soprattutto una operazione di propaganda che porta vantaggi residuali; e che, paradossalmente, non marcia nella direzione che lo stesso primo ministro vorrebbe, cioè quella di rendere disponibile più reddito e quindi favorire i consumi e la ripresa dell’economia.
E’ vero che il sistema fiscale e tributario italiano è vecchio, dal momento che la sua attuale struttura risale ai primi anni 70’; questo di per sé non basta, per riformarlo più che guardare al dato anagrafico, occorrerebbe infatti capire quale è la situazione attuale e quali sono gli obiettivi più urgenti da raggiungere.
La realtà ci dice che oltre la metà dei contribuenti italiani dichiara all’incirca 15 mila euro all’anno. Si tratta di quasi il 60% dei pensionati, più del 40% dei dipendenti e di un considerevole 22% dei cosiddetti autonomi. Al netto dell’evasione fiscale, per la categoria dei professionisti e delle imprese individuali, è probabile che si tratti non solo di “finte imprese”, cioè in maggioranza lavoratori precari, ma anche di veri autonomi, colpiti più di altri della recessione e messi all’angolo anche dalla stretta del credito.
Complessivamente, pur prendendo in considerazione quel 16% del Pil che viaggia sotto la superficie del “nero”, l’ottanta per cento dei contribuenti non va oltre i 26 mila euro lordi all’anno.
Questi dati dicono che, complessivamente, la condizione reddituale in questo paese è negativa. In media, ce lo dice l’Europa, l’Italia è la nazionane in cui si guadagna meno all’interno dell’Unione Europea. E’ per questo, cioè a causa di un Paese che si sta impoverendo e che rende sempre più evidenti le differenze tra ricchi e poveri, che il 10% dei contribuenti sostiene più della metà del carico fiscale: è lo stesso 10% che detiene, statistiche alla mano, il 43% della ricchezza nazionale e che lascia al rimanente 90% degli italiani solo il 57%.
Una vera riforma fiscale dovrebbe prendere in considerazione soprattutto l’equità e intervenire, per giustizia, in primo luogo sui redditi più bassi. Questa proposta del Governo, invece, scardina il principio di progressività – cioè meno guadagni, meno paghi – e privilegia i redditi alti o altissimi, a cui abbassa di fatto l’imposizione. Per i redditi fino a 15 mila euro non ci sarebbero vantaggi, per quelli fino a 30 mila euro il risparmio pro capite è risibile e meglio sarebbe allora mettere insieme queste risorse non per fare l’elemosina al singolo, ma spenderle complessivamente per tentare di attuare misure strutturali, ad esempio sul fronte del welfare.
Ma al di là di questo, la non giustezza del sistema fiscale italiano non è data tanto da “quanto” si paga, ma dal “come”. Il nostro non è il Paese dell’Unione in cui si versano più tasse sul lavoro, in Germania e Francia si paga molto di più; il problema è che da noi, contrariamente a quanto avviene all’estero, il sistema è indifferente a chi sia e in quali condizioni si trovi il contribuente. A parità di reddito, e quindi di imposizione, discrimina tra chi ha famiglia e chi vive da single. E le detrazioni, soprattutto quelle per familiari a carico, sommate agli assegni familiari che però valgono solo per i dipendenti (altra ingiustizia) non compensano la distorsione.
La vera riforma è quindi quella prevista dall’attuazione del quoziente familiare: cioè prendere a riferimento non solo il reddito, ma anche la condizione sostanziale di quel contribuente, se ha famiglia o no, se è l’unico reddito disponibile, e inserire lì il sistema dei risparmi fiscali. Agendo, ovviamente, soprattutto sulla fascia bassa e media dei redditi, cioè sul gruppo di contribuenti che si è maggiormente impoverito in questi anni, senza distinguere tra lavoro dipendente e lavoro autonomo.
Questa sì, soprattutto nel Veneto e nella Marca della piccola e piccolissima impresa, sarebbe una vera ed efficace riforma fiscale.
Certo, sarebbe anche una riforma costosa alla luce del debito pubblico e dell’eccessiva spesa pubblica, su cui comunque la spesa sociale pesa per meno di un terzo del totale.
Ma se si parla di stabilità dei conti, deve essere ricordato ai lettori come l’ottimo ministro Tremonti pensi di finanziare le due aliquote: cioè con un aumento dell’Iva. Bella mossa: non solo l’Iva, come imposta indiretta, colpisce tutti allo stesso modo, quindi incide di più sui redditi bassi. Ma un suo inasprimento, anche se marginale, comporterà il crescere delle transazioni economiche in nero, perché è soprattutto l’imposta sul valore aggiunto quella che si cerca di aggirare con l’economia sommersa, come sa chi evita la fattura dell’idraulico, del fabbro, del gommista o del dentista.
La scelta, alla fine, è una questione di valori: se metto al centro la persona, e la considero nel suo insieme, il quoziente famigliare diventa una opzione quasi obbligata per dare più equità al sistema fiscale. Se invece ragiono per slogan semplificanti posso anche permettermi di fare la riformetta delle due aliquote. Una riformetta che, in una Italia e in un Veneto sempre più poveri e diseguali, regala qualche cosa ai ricchi e non concede nulla ai meno abbienti. Anzi, gliene toglie. Il problema è che ce ne accorgeremo quando sarà troppo tardi.
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