mercoledì 20 gennaio 2010

BRINDISI ELETTORALE


Due bicchieri di vino fanno bene o fanno male? Benissimo alla salute non fanno, ma funzionano che è un piacere in campagna elettorale.
Ecco perché Luca Zaia, candidato a Governatore del Veneto ma ancora Ministro della Repubblica, quindi con livello di responsabilità un po’ più alto del cliente qualunque di un qualunque osteria, si è buttato a capofitto sulla polemica da bar scatenata dal sindaco di Tarzo, innamorato consumatore del succo d’uva con le bollicine, che tra i mille consigli che si sente di dare ai suoi concittadini ha deciso di cominciare dal consumo di un paio di bicchieri di quello buono, che fanno bene.
Alla sponda dei bacchettoni, quelli che ricordano come il vino, anche quello buono, è pur sempre una sostanza potenzialmente dannosa per il corpo, mortale se se ne ha troppo in circolo quando si guida, il trevigiano Zaia risponde con la semplicità e la simpatia della consuetudine nostra di bere al pasto, di bere fuori pasto, di bere prima e dopo il pasto.
Non siamo un popolo di ubriaconi, e se lo siamo il più delle volte la causa non è il vino, ma di bevitori sì. E’ nella nostra tradizione, fa parte della nostra cultura, come lo era condire l’insalata con il lardo, mangiare le frattaglie del maiale, come lo è cicchettare di musetti e salami. Tutto buono, ma anche tutto poco salutare.
Quando si parla di alcolici, lo sappiamo bene proprio perché alla stragrande maggioranza di noi il vino piace e parecchio, bisognerebbe stare molto attenti. La differenza la fa ovviamente la quantità, se assunte in abbondanza anche le frittelle di carnevale sono una insidia per lo stomaco. Ed è questo il punto. Il bevitore responsabile è quello che sa con che cosa ha a che fare. E’ il bevitore maturo, non il ragazzino alla ricerca di trasgressione o sensazioni forti. E’ uno consapevole, come lo è anche il Ministro, che si può essere al di sotto dei limiti fissati dalla legge per il consumo di alcol di chi si mette al volante ed essere comunque, dopo “do goti”, meno lucido del solito, meno del normale, meno di quello che servirebbe.
Che per il vino facciano campagna i produttori è una cosa normale. Che ci si mettano gli amministratori pubblici, soprattutto un sindaco, a cui spetta anche la difesa e la promozione della salute e dell’igiene pubblica, è una cosa un po’ meno ordinaria. Ci sarebbe altro di cui occuparsi. E comunque, come giustamente fatto notare da più di qualcuno, non sarebbe male ricordarsi di scrivere in quei manifesti che il vino può anche fare male e cercare di evitare di dare un messaggio di normalità del bere soprattutto ai giovani, che già sono assidui e ingordi consumatori di alcol, tra spritz ed altro.
Meno ortodossa potrebbe invece apparire la scelta dell’amico Zaia, candidato ma soprattutto Ministro, quindi uno che per forma mentale, visto il lavoro che fa, dovrebbe avere il principio di cautela più che le strizzatine d’occhio alla doppia ombra.
Ma l’effetto che l suo messaggio, rassicurante e allegro, produce in noi, bevitori sociali e qualche volta anche socialmente un po’ sbronzi, è quello della simpatia. Ma che palle questi medici preoccupati, ma che noia quelli del Sert: saranno sicuramente di sinistra, Luca sì che invece le cose le sa, che è uno di noi. E che male faranno due bicchieri di quello de casada?
Un bicchiere, dice chi ne sa, può persino fare bene al cuore, se è vino rosso. Due di fila fanno allegria ma aprono anche la strada al terzo. Se berli è la normalità di una regola di vita sempre un po’ al limite, lo dice un fumatore e amante del vino, incentivare al berli fa diventare “uno de noantri”. Punti in più per il bravo Zaia e la sua campagna elettorale, punti in meno per qualche patente. E non solo per quella.

giovedì 14 gennaio 2010

LA RIFORMETTA PER I RICCHI (il mio editoriale di ieri su La Tribuna di Treviso)


E’ dal 1994 che Silvio Berlusconi propone e sogna una riforma delle imposte sulle persone fisiche che abbia come approdo l’adozione di due solo aliquote. A dire il vero allora, al suo primo giro di giostra da Premier, parlava anche di quoziente familiare, cioè la vera riforma del fisco che andrebbe attuata, ma poi lo ha lasciato nel dimenticatoio, come se fosse un dettaglio.
Affrontare il tema dei soldi, e di tasse, in questo momento è indubbiamente la scelta giusta. Il Paese è in difficoltà per la crisi economica e il messaggio, lanciato non a caso alla vigilia delle elezioni regionali, trova la gente molto sensibile. Sicuramente interessa quel blocco sociale di elettori del centrodestra e della Lega che vede nel fisco il nemico numero uno della sua prosperità. Un ragionamento che in Veneto, bombardati dall’antistatalismo un po’ iperliberista e un po’ secessionista, trova e soprattutto genera grandi consensi.
Ma la manovra rischia di rivelarsi soprattutto una operazione di propaganda che porta vantaggi residuali; e che, paradossalmente, non marcia nella direzione che lo stesso primo ministro vorrebbe, cioè quella di rendere disponibile più reddito e quindi favorire i consumi e la ripresa dell’economia.
E’ vero che il sistema fiscale e tributario italiano è vecchio, dal momento che la sua attuale struttura risale ai primi anni 70’; questo di per sé non basta, per riformarlo più che guardare al dato anagrafico, occorrerebbe infatti capire quale è la situazione attuale e quali sono gli obiettivi più urgenti da raggiungere.
La realtà ci dice che oltre la metà dei contribuenti italiani dichiara all’incirca 15 mila euro all’anno. Si tratta di quasi il 60% dei pensionati, più del 40% dei dipendenti e di un considerevole 22% dei cosiddetti autonomi. Al netto dell’evasione fiscale, per la categoria dei professionisti e delle imprese individuali, è probabile che si tratti non solo di “finte imprese”, cioè in maggioranza lavoratori precari, ma anche di veri autonomi, colpiti più di altri della recessione e messi all’angolo anche dalla stretta del credito.
Complessivamente, pur prendendo in considerazione quel 16% del Pil che viaggia sotto la superficie del “nero”, l’ottanta per cento dei contribuenti non va oltre i 26 mila euro lordi all’anno.
Questi dati dicono che, complessivamente, la condizione reddituale in questo paese è negativa. In media, ce lo dice l’Europa, l’Italia è la nazionane in cui si guadagna meno all’interno dell’Unione Europea. E’ per questo, cioè a causa di un Paese che si sta impoverendo e che rende sempre più evidenti le differenze tra ricchi e poveri, che il 10% dei contribuenti sostiene più della metà del carico fiscale: è lo stesso 10% che detiene, statistiche alla mano, il 43% della ricchezza nazionale e che lascia al rimanente 90% degli italiani solo il 57%.
Una vera riforma fiscale dovrebbe prendere in considerazione soprattutto l’equità e intervenire, per giustizia, in primo luogo sui redditi più bassi. Questa proposta del Governo, invece, scardina il principio di progressività – cioè meno guadagni, meno paghi – e privilegia i redditi alti o altissimi, a cui abbassa di fatto l’imposizione. Per i redditi fino a 15 mila euro non ci sarebbero vantaggi, per quelli fino a 30 mila euro il risparmio pro capite è risibile e meglio sarebbe allora mettere insieme queste risorse non per fare l’elemosina al singolo, ma spenderle complessivamente per tentare di attuare misure strutturali, ad esempio sul fronte del welfare.
Ma al di là di questo, la non giustezza del sistema fiscale italiano non è data tanto da “quanto” si paga, ma dal “come”. Il nostro non è il Paese dell’Unione in cui si versano più tasse sul lavoro, in Germania e Francia si paga molto di più; il problema è che da noi, contrariamente a quanto avviene all’estero, il sistema è indifferente a chi sia e in quali condizioni si trovi il contribuente. A parità di reddito, e quindi di imposizione, discrimina tra chi ha famiglia e chi vive da single. E le detrazioni, soprattutto quelle per familiari a carico, sommate agli assegni familiari che però valgono solo per i dipendenti (altra ingiustizia) non compensano la distorsione.
La vera riforma è quindi quella prevista dall’attuazione del quoziente familiare: cioè prendere a riferimento non solo il reddito, ma anche la condizione sostanziale di quel contribuente, se ha famiglia o no, se è l’unico reddito disponibile, e inserire lì il sistema dei risparmi fiscali. Agendo, ovviamente, soprattutto sulla fascia bassa e media dei redditi, cioè sul gruppo di contribuenti che si è maggiormente impoverito in questi anni, senza distinguere tra lavoro dipendente e lavoro autonomo.
Questa sì, soprattutto nel Veneto e nella Marca della piccola e piccolissima impresa, sarebbe una vera ed efficace riforma fiscale.
Certo, sarebbe anche una riforma costosa alla luce del debito pubblico e dell’eccessiva spesa pubblica, su cui comunque la spesa sociale pesa per meno di un terzo del totale.
Ma se si parla di stabilità dei conti, deve essere ricordato ai lettori come l’ottimo ministro Tremonti pensi di finanziare le due aliquote: cioè con un aumento dell’Iva. Bella mossa: non solo l’Iva, come imposta indiretta, colpisce tutti allo stesso modo, quindi incide di più sui redditi bassi. Ma un suo inasprimento, anche se marginale, comporterà il crescere delle transazioni economiche in nero, perché è soprattutto l’imposta sul valore aggiunto quella che si cerca di aggirare con l’economia sommersa, come sa chi evita la fattura dell’idraulico, del fabbro, del gommista o del dentista.
La scelta, alla fine, è una questione di valori: se metto al centro la persona, e la considero nel suo insieme, il quoziente famigliare diventa una opzione quasi obbligata per dare più equità al sistema fiscale. Se invece ragiono per slogan semplificanti posso anche permettermi di fare la riformetta delle due aliquote. Una riformetta che, in una Italia e in un Veneto sempre più poveri e diseguali, regala qualche cosa ai ricchi e non concede nulla ai meno abbienti. Anzi, gliene toglie. Il problema è che ce ne accorgeremo quando sarà troppo tardi.