lunedì 30 novembre 2009

CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE DELLA GESTIONE IDRICA (Il mio editoriale pubblicato sabato 28 novembre su "La Tribuna di Treviso"


Quello che sta succedendo ai cittadini di Povegliano, che hanno subito un aumento della bolletta idrica da parte del gestore che arriva al 50% rispetto a quanto si pagava prima, può essere considerato solo un antipasto del futuro che ci attende, in provincia di Treviso come nel resto dell’Italia.
E’ l’effetto della privatizzazione della gestione della distribuzione idrica previsto dall’art 15 del decreto Ronchi recentemente passato alla Camera e al Senato. In sostanza una tassa in più che verrà a pesare sui bilanci soprattutto delle famiglie, figlia di una decisione che, vista dal punto di vista dell’efficienza economica della gestione, fa, è proprio il caso di dirlo, acqua da tutte le parti.
Va innanzitutto spiegato ai cittadini che la motivazione che sta dietro a quell’art 15, che non riguarda solo l’acqua ma l’interezza dei servizi pubblici locali, è un imbroglio: il decreto impone infatti privatizzazioni e le giustifica come adeguamento a norme emanate dall’Unione Europea. Ma non è vero perché le due direttive europee in questione, la 92/50/CEE e la 93/38/CEE, si limitano a chiedere che vi sia concorrenza per i servizi pubblici nazionali e locali, ma escludono da logiche di mercato proprio il servizio idrico.
Persino la famigerata “direttiva Bolkestein” tiene fuori dalla libera circolazione dei servizi proprio quello idrico e affida ai singoli Stati membri il compito di stabilire quali siano i servizi “a interesse economico” e quali quelli “intrinsecamente non a scopo di lucro”. Per questi ultimi, ogni singolo Stato può sancire il divieto totale di apertura al mercato.
Quindi l’infornata di privatizzazioni decisa dal governo Berlusconi non è adeguamento all’Europa, ma la via tutta italiana di perseguire quegli obiettivi di efficienza legati alla concorrenza che l’Unione chiede.
Proprio la concorrenza, parlando di acqua, è il punto chiave di tutta la faccenda. La concorrenza nei servizi presume la possibilità per un utilizzatore di scegliere, nel libero mercato, l’offerta semplicemente più conveniente o che abbia il miglior rapporto prezzo-prestazioni. La risposta del mercato può essere l’efficienza, appunto attraverso la concorrenza, o il cartello, come già avvenuto nel caso delle assicurazioni e del mercato dei carburanti. E dal momento che il cartello turba i mercati, si tratta di una situazione che viene contrastata dai governi, anche se in Italia con molta debolezza.
La molteplicità dell’offerta, che è la spina dorsale di una privatizzazione che liberalizza, è qualche cosa che per quanto riguarda la distribuzione dell’acqua non può esistere, perché la gestione idrica è, tecnicamente, un monopolio naturale.
Di fatto, dunque, non si tratta di liberalizzazione e concorrenza, ma di mera privatizzazione. Se il cittadino non può scegliere a quale gestore affidarsi, come succede nel caso di gas, elettricità e telefono, l’acqua diventa un servizio in cui l’unico elemento di concorrenza si forma nell’offerta per ottenere, dalla proprietà pubblica, la gestione economica. Si presume che la scelta dovrebbe avvenire sulla base della tutela degli interessi diffusi, ma sappiamo che nel nostro paese contano di più le lobby e le loro buone pubbliche relazioni.
Quello che sta succedendo a Povegliano, già accaduto in altre parti d’Italia e in fase di sviluppo in tutta la nostra provincia, è una corsa dei prezzi legata all’assenza di meccanismi che regolino la formazione della tariffa. Questa assenza è confermata nell’art 15 del Decreto Ronchi, che sul punto è fumoso se non proprio reticente. Sarà quindi possibile, anche nella Marca, un caso come quello di Firenze: la gestione è privata e il Comune adotta una campagna per la riduzione dei consumi che viene seguita dai cittadini; siccome i consumi in effetti calano, il gestore privato, per non rimetterci, che ha fatto? Ha ovviamente aumentato la tariffa per metro cubo.
Altro fatto: i cittadini di Povegliano, come altri, pagano un conto che non tiene in considerazione solo la gestione del servizio, ma anche l’intervento sulla rete, che disperde molto. E questo perché nessun gestore privato si prenderebbe a carico un sistema in cui viene perso il 34% medio del prodotto da vendere. Quindi il cittadino prima paga la ristrutturazione della rete, poi si accolla la remunerazione che il privato vuole ottenere dalla sua attività.
Si capisce che questi meccanismi aprono un mercato oligopolistico, se non proprio monopolistico, in cui ci guadagnano tutti, ma non i cittadini consumatori.
L’Onu, nell’affrontare il tema dell’accesso all’acqua, che in molte aree del pianeta è ancora difficoltoso, considera come diritto umano inalienabile la disponibilità di almeno 20 litri di acqua garantiti al giorno mentre il contratto mondiale sull’acqua, discusso anche in sede Fao, ha tra i suoi principi proposti la disponibilità pro-capite di 40 litri al giorno come diritto umano e sociale, universale, indivisibile e imprescrittibile. Questi livelli andrebbero considerati dalla normativa per la gestione privatizzata in Italia come quantità garantita e non tariffata pro capite. Così come deve essere cancellata la possibile iniquità di una tariffazione legata al consumo, che faccia pagare di più alle famiglie rispetto ai singles e alle famiglie numerose rispetto a quelle senza figli.
La gestione idrica deve certamente essere più razionale ed efficiente, deve puntare su una responsabilizzazione del consumo e una sua riduzione. Ma la privatizzazione italiana, senza un ragionamento sui limiti di consumo garantiti in quanto diritto e sulle fasce e tipologie sociali che devono essere protette, finirà per trasformarsi solo in un ulteriore iniquo prelievo, altro che concorrenza..
Ultima annotazione: è curioso che un governo che sveltola la bandiera del federalismo marchiato con il “padroni a casa nostra” decida di imporre, dal centro alla periferia, i criteri di concorrenza nei servizi pubblici, quando secondo il principio della sussidiarietà, dovrebbe limitarsi a descrivere la cornice di adeguamento alle direttive Ue e lasciare libertà di azione alle autonomie locali. E’ una ulteriore dimostrazione che, in realtà, il federalismo che si rincorre è solo la bella copertina di una disegno in cui il centralismo di potere della partitocrazia e dei poteri forti rimane ben saldo al potere.

Paolo Camolei

LA PERESTROIKA NEL CENTRODESTRA


La distanza di Silvio Berlusconi dalla mafia si deve misurare sulla fiducia e sul consenso che gli resta (che è ancora alto) che sui fatti.
Si legge nell’Apocalisse (20, 12-14)che si verrà giudicati per le proprie opere. Aver mantenuto a libro paga uno stalliere casualmente affiliato (e che affiliazione) alla mafia che opera è?
Rimane, ovviamente, la buona fede. Quindi per questo inciampo Berlusconi, che era in buona fede, non verrà giudicato male. Resta ora ai giudici definire se sono vere le rivelazioni dei pentiti e quelle sconvolgenti notizie sulla responsabilità del capo della Pdl per le stragi che insanguinarono il nostro paese ad inizio degli anni ottanta.
E per fortuna che la procura di Firenze ha smentito i giornali (non quelli di sinistra, ma quelli del presidente del Consiglio) riguardo al possibile status di indagato suo e di dell’Utri.
Parto da questo, ultima sciagura mediatica del Silvio nazionale, per spiegare come, secondo me, le vicende personali e il modo di governare siano oggi strettamente legate, malgrado la distrazione del cosiddetto “popolo”.
C’è da chiedersi a chi importa del fatto che Berlusconi abbia o meno avuto rapporti/contatti con la mafia, tanto quanto mi chiedo a chi interessi che Brerlusconi abbia o meno corrotto, non pagato le tasse, imbrogliato le carte a proprio beneficio, pagato politici, piegato le leggi in favore delle sue aziende.
Verrebbe da dire pochi (gli interessati) visto che il consenso rimaner alto, cosa di cui si deve prendere nota.
Ora: io non auspico un colpo di magistratura. Spero sinceramente che Berlusconi sia, in effetti, innocente. Questo non vuol dire che mi iscrivo al partito di quelli che vorrebbero usare il lanciafiamme contro i giudici (il lanciafiamme è una citazione di tal Cesare Previti) anche se credo che i poteri dello Stato, oggi terribilmente in conflitto, debbano ritrovare – tutti - equilibrio e misura.
Semplicemente vorrei risparmiarmi la vergogna di aver avuto un capo del governo con la fedina penale potenzialmente lunga come i rotoloni regina.
Resta il fatto che Silvio Berlusconi fa poco o nulla per gettare trasparenze intorno alle sue vicende giudiziarie: e il modo di fare di questo governo, tutto proiettato a salvare il suo capo, a costo di funambolici equilibrismi e a tutto beneficio delle pretese della lega, sta penalizzando un paese che avrebbe bisogno di un esecutivo che pensi ai problemi della gente, non a quelli di un tycoon primo ministro assediato dalle procure (so che l’idea di Berlusconi che pensa per sé e non a noi riprende lo slogan dei manifesti del Pd: scusatemi, non volevo).
La questione non è se funziona meglio la destra o la sinistra: le pene di Berlusconi non bastano a legittimare il Pd come forza di governo capace, né i successi del Premier nelle aule giudiziarie (magari a colpi di prescrizione) non fanno necessariamente del bene alla destra costituzionale italiana, liberale e riformatrice, che rimane drammaticamente orfana o quasi di veri interpreti.
Ecco perché ho recentemente usato il termine “perestroika” per il centrodestra italiano: serve spaccare il regime, rimettere in piedi uno schieramento moderato “dal volto pubblico” e non solo con “pruriti privati”.
In un mio stato di Facebook, in cui parlavo di perestroika del centro destra, l’amico Nicola Marasciulo (amico di facebook) mi scrive che prima dovrebbe cadere Breznev, intuisco parli di Berlusconi. Sbagliato: non deve cadere il despota, deve sollevarsi il popolo moderato, chiamato a scrollarsi di dosso il peso oramai gravosissimo degli infiniti conflitti di interesse. L’amico (in carne e ossa) Arthur Carponi Schittar scrive invece che “devono cadere troppi muri perché succeda”. Beh: i muri non cadono da soli. Mano ai picconi, amici liberali: un altro moderatismo è possibile!

mercoledì 18 novembre 2009

LODO COSITUZIONALE E IMMUNITA' PARLAMENTARE, MENTRE LA CRISI SI DIVORA IL PAESE


Per uscire dal corto circuito giustizia-politica, e riparare i danni che questo scontro fra poteri sta causando ai cittadini italiani, si affacciano due soluzioni: una è il Lodo Alfano introdotto con una legge costituzionale, proposta fatta dal presidente dell’Udc Pierferdinando Casini; il secondo è entrato sulla bocca di tutti ma è stato reso esplicito in maniera interessante dal giudice Carlo Nordico, procuratore aggiunto a Venenzia, in una sua recente intervista e in un intervento pubblicato oggi su “Il Riformista”.
Entrambe mi sembrano soluzioni non corrette, in grado di ledere, il secondo più del primo, quella uguaglianza davanti alla legge che sta al fondamento del nostro ordinamento, configurando una “specialità” della politica così profonda da rendere il politico eletto sostanzialmente impermeabile all’azione di giustizia, e con il rischio di ripristinare meccanismi di casta.
Il Lodo Alfano in versione costituzionale punta ad uscire dalla fanghiglia del cosiddetto “processo breve”. La proposta di Casini vuole superare i dubbi che hanno portato alla bocciatura del primo Lodo da parte della Corte Costituzionale. Ma significherebbe iscrivere nella costituzione del nostro paese la regola dell’intangibilità delle alte cariche dello Stato non solo dai procedimenti che possono essere relativi a reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, ma da tutto quello che è perseguibile.
Domanda: falso in bilancio e corruzione sono fattispecie tali da rendere chi le ha commesse, se è una “alta carica dello Stato”, meritevole di una protezione così forte per la durata del suo ufficio?
La mia risposta è, per questi reati come per altri (il Lodo Alfano di fatto sana tutto), assolutamente no. Significherebbe far dire alla nostra costituzione che la legge è uguale per tutti ma ci sono alcuni che sono più uguali degli altri.
Alla responsabilità della carica, responsabilità che deriva dal fatto di avere un profilo personale e morale tale da meritarsela, si sostituirebbe il principio del “privilegio”, in un campo molto delicato come quello della giustizia.
Semmai, sarebbe da ipotizzare un meccanismo più articolato: immunità di principio per le alte cariche, giurì di nomina della Corte Costituzionale (o funzione esercitata dalla corte stessa) che valuti, in seduta dibattimentale pubblica, se il soggetto, rispetto alla fattispecie di reato di cui si parla, sia o meno meritevole delle specifica tutela in relazione all’assolvimento del suo ufficio.
Quanto all’immunità parlamentare, e al suo ripristino, ne ha parlato bene il giudice Nordio. Il procuratore aggiunto di Venezia ha definito il cosiddetto processo breve odioso “perche’ sottrae alla prescrizione alcuni tipi di reati, dall’immigrazione clandestina al furto di una bicicletta, che non sono certo più gravi della corruzione e del falso in bilancio”, definendone poi i connotati “funesti” perché si tratterebbe di una riforma “irrazionale”.
In una recente intervista, per dirsi favorevole alla reintroduzione dell’immunità parlamentare (anche come via d’uscita da soluzioni pasticciate come il processo breve), Nordio ha detto che “una metà scarsa degli italiani pensa che il presidente del Consiglio attacca i magistrati per sfuggire ai procedimenti che lo riguardano, una metà abbondante pensa che i magistrati lo vogliano processare per ragioni politiche, per riuscire a fare, nelle aule dei tribunali, quello che non si riesce invece a fare in cabina elettorale”. E ha aggiunto: “Possono essere vere entrambe, o nessuna delle due, il dato è che questi processi durano da 15 anni”. E si è detto favorevole all’immunità richiamando il principio, voluto dalla generazione politica da cui è nata la nostra Costituzione, per cui “la politica non deve essere aggredita da un altro potere dello stato”.
Al tempo in cui l’immunità parlamentare fu concepita si parlava ancora di democristiani, socialisti, comunisti e fascisti., Il clima politico era spesso esasperato, il rischio di un uso “di Stato” della giustizia contro gli oppositori ampiamente concreto.
Tutte cose che oggi non esistono più, semmai esiste il rischio di un controllo del potere esecutivo su quello giudiziario. Nordio sostiene, giustamente, che l’immunità esiste in altri Stati e che vale anche per i parlamentari europei. Verissimo. Il punto è che le deroghe giudiziarie della politica italiana, purtroppo molto frequenti, non si risolvono, di principio e di fatto, rendendo i parlamentari immuni dai processi per la durata della loro carica.
Il punto vero è che il nodo giustizia non riguarda il rapporto fra magistrati e politici, ma i cittadini, l’uguaglianza , la libertà e la difesa dei diritti. La questione giustizia non può risolversi con le scappatoie che il primo ministro deve trovare ai procedimenti che lo riguardano o il ripristino della condizione di privilegio “supra legem” dei parlamentari, ma i tempi del giudizio, che tolgono certezza del diritto, la responsabilità civile dei magistrati, la riforma di un sistema improntato all’obbligatorietà dell’azione penale, che porta i tribunali all’intasamento, salvo i miracolosi effetti condonatori della prescrizione.
Oggi invece la questione giustizia è affare privato del Premier e della casta degli eletti. Il Paese ha bisogno di essere condotto fuori dalla crisi, e invece rischia di infilarsi dentro alla crisi, di governo, magari proprio per la resa dei conti piediellina sui problemi giudiziari di Silvio Berlusconi.
Siamo un’Italia senza guida, un guscio di noce in mezzo al mare.

mercoledì 11 novembre 2009

IL DISASTRO DI VALLA' E GLI IMBROGLI DELLA LEGA


Perché i soldi a Messina, subito, e Vallà no, dopo sei mesi dalla tromba d’aria che ha sconvolto il Paese?
Seccherà ammetterlo, ma la verità potrebbe stare nella provocazione lanciata, qualche giorno fa, da Marco Travaglio ospite a Castelbrando: perché il Veneto, ha detto il giornalista, per la Pdl e soprattutto per la Lega, è un territorio politicamente acquisito. Morale: qui non c’è bisogno di mostrare nulla, qui non servono le telecamere delle televisioni di proprietà e di quelle controllate perché tanto a Vallà non c’è da cercare voti: sono già tutti presi.
Resta da chiedersi, e da chiedere, cosa ne pensino i cittadini di Vallà di questa provocazione di Travaglio. Chiedere se la condividano, se davvero pensino che la crociata anti-islam vale di più una casa scoperchiata che per la politica non esiste, se un capannone rovinato e una impresa al collasso contano meno di una ronda (mai partita, peraltro), se una legge assurda e ingiusta come quella sui respingimenti in mare degli immigrati irregolari sia elettoralmente più convincente di uno Stato che, nel momento del bisogno, non sa fare lo Stato e di un esecutivo che, di fronte ad una catastrofe naturale, non sa fare il suo dovere, o lo fa solo dove conviene.
Certo bisogna ammettere che Vallà non ha una lobby potente come quella della Pdl del sud, soprattutto di quella siciliana. In piena ebollizione del quadro politico la minaccia di ribellione della frangia sudista del partito del presidente del consiglio è una grana che merita tutti quei 60 milioni di euro arrivati praticamente subito, e per fortuna che sono arrivati, alle popolazioni messinesi. E bisogna rassegnarsi al fatto che i tre ministri veneti e la folta pattuglia dei nostri deputati e senatori. se non niente di sicuro conta meno degli esponenti siciliani del Popolo della Libertà. Loro sì che ci sanno fare, loro sì sanno toccare i tasti giusti. Il Veneto invece porta acqua gratis.
Fosse successo 15 anni fa, un disastro come quello di Vallà ed il trattamento vergognoso dello Stato che ha lasciato soli quei cittadini al loro destino sarebbe stato argomento buono per accendere la voglia di secessione. Ma quelli erano i tempi della Lega di lotta, non di governo; la Lega antisistema, fiera nemica di Roma Ladrona.
Oggi invece, con il Carroccio al governo e fedele quanto indispensabile alleato di Berlusconi, nessuno fiata. E’ qui che sta tutta la forza della provocazione di Travaglio. Che se fosse vera significherebbe una cosa: evidentemente la colpa per quei soldi mai arrivati è anche nostra, perché piuttosto che confidare su uno Stato giusto, che sa essere vicino ai suoi cittadini nel momento del bisogno, dovremo rassegnarci ad avere a che fare con uno Stato occupato da una politica opportunista e cinica, interessata solo a se stessa e alla difesa di interessi personali. E quindi ci si dovrebbe comportare di conseguenza, magari iniziando a smetterla di vot,i ma facendoli pesare, e costare, come fanno i più furbi.
Quindici anni fa Vallà sarebbe diventata un caso, un emblema, un simbolo di quanto l’Italia possa essere ingiusta. Oggi è solo un paesino sperduto di una provincia politicamente blindata dove è casualmente passata una tromba d’aria che ha fatto danni per 33 milioni di euro. La sua gente farà come ha sempre fatto: si rimboccherà le maniche senza dovere elemosinare nulla. Finirà che a metterci qualche euro saranno la Regione e magari la Provincia, supplenti di uno Stato assente ingiustificato, indifferente ai più deboli e debole con i forti.
Roma non è più ladrona e di Vallà di Riese non gliene frega niente a nessuno.

giovedì 5 novembre 2009

DISASTRO DI VALLA', VERGOGNA DI STATO


Perchè dopo il disastro a Messina sono arrivati 60 milioni di euro e a Vallà di Riese, paese della provincia di Treviso devastato da una tromba d'aria, i cittadini sono stati abbandonati e non c'è ancora un euro di aiuti? Servono i morti, il prime time dei telegiornali o le telecamere di porta a Porta per spingere questo governo a fare le cose? Questo è il comunicato che ho diffuso oggi


UNIONE DI CENTRO
Coordinamento Provincia di Treviso


COMUNICATO STAMPA


La gente di Vallà abbandonata e trattata da cittadini di serie B. Si muovano le Istituzioni locali perché lo Stato faccia lo Stato e il governo faccia il suo dovere

Dichiarazione di Paolo Camolei, componente del coordinamento provinciale: “I cittadini veneti e trevigiani devono rimboccarsi le maniche, quelli di Catania e Roma si fanno risanare i buchi del bilancio per centinai di milioni di euro dei loro Comuni da tutto il Paese e la gente di Messina, dopo la tragedia, ha avuto la fortuna di poter contare anche sul sostegno dell’unione Europea per un intervento di oltre 60 milioni di euro, arrivati pressoché subito. E’ questo il federalismo che ci promettono da 20 anni?”





“I cittadini veneti e trevigiani devono rimboccarsi le maniche, quelli di Catania e Roma si fanno risanare i buchi del bilancio per centinai di milioni di euro dei loro Comuni da tutto il Paese e la gente di Messina, dopo la tragedia, ha avuto la fortuna di poter contare anche sul sostegno dell’unione Europea per un intervento di oltre 60 milioni di euro, arrivati pressoché subito. E’ questo il federalismo che ci promettono da 20 anni?”.
Se lo chiede Paolo Camolei, membro del coordinamento provinciale dell’Unione di Centro a proposito della mancata destinazioni di fondi a sostegno delle popolazioni di Vallà, vittime a giugno della tromba d’aria che ha devastato la località del trevigiano.
“Basta con le umiliazioni! Siamo sempre stati bravi a fare per conto nostro, ma adesso ci stanno prendendo in giro. Arrangiarsi è una buona cosa, ma non consente allo Stato italiano di fregarsene di chi vede la propria vita sconvolta a causa di una calamità naturale. Non ci sono e non ci possono essere cittadini di serie A e di serie B, chi viene aiutato e chi viene ingiustamente dimenticato. Noi trevigiani, purtroppo, siamo cittadini di seconda serie. Dove sono finiti il federalismo e la fiscalità federale contenuti nel progetto di riforma derivato dalla Bozza Calderoni? La vicenda di Vallà è la dimostrazione che quello è un federalismo falso, fumoso, inconsistente, dannoso. La prova sta nella disuguaglianza di trattamento tra Messina e la località trevigiana: alla prima è arrivato anche l’aiuto dell’Europa, alla seconda nulla, come se quei 33 milioni di euro di danni non valessero niente se non parole e giustificazioni di circostanza. E non conta il fatto che la Regione stanzierà fino a 5 milioni di euro e che anche la Provincia di Treviso faccia la sua parte: non è compito di Venezia o della Giunta Muraro quello di reperire fondi straordinari per le catastrofi, ma dello Stato centrale. Intanto noi saremo chiamati a pagare due volte, dirottando risorse del territorio, che non potranno quindi essere spese per altro, al fine di supplire alle manchevolezze del governo centrale ostaggio del finto federalismo da copertina della Lega”.
“Come Unione di Centro della provincia di Treviso non vogliamo dimenticarci delle popolazioni di Vallà né farci ubriacare dalle tante parole di giustificazione a cui, fino ad oggi, sono seguiti solo fatti sconsolanti. Piuttosto è giunto il tempo che, in maniera trasversale e con senso di responsabilità i rappresentanti istituzionali trevigiani convergano nella costituzione di una vera e propria lobby territoriale che compia fatti e che richiami il governo, i ministri veneti, il parlamento e gli eletti in questo collegio alle loro precise responsabilità. Condurremo una battaglia politica a oltranza, di sostanza, non di forma o di immagine, affinché venga fatto valere il diritto delle popolazioni di Vallà ad essere sostenute e ad essere considerate esattamente come tutti gli altri che, in circostanze similari, hanno invece potuto godere di quella presenza e vicinanza dello Stato su cui il veneto non sembra poter contare. Basta con i trevigiani che lavorano e tacciono, a solo vantaggio di una politica incapace di fare se non per se stessa: lo Stato faccia lo Stato e il governo faccia il suo dovere, anche lì dove non ci sono convenienze elettorali e non arrivano le telecamere di Porta a Porta”

Treviso, 5-11-2009